È ormai un dato di fatto che i social media siano il più importante mezzo di comunicazione di massa. Ogni notizia viene riportata, filtrata, diffusa e commentata su queste piattaforme. La necessità di moderare i toni e bloccare contenuti offensivi o violenti spesso si scontra con la libertà di parola degli utenti che guardano il digital come luogo dove esprimere le proprie opinioni qualunque esse siano. La questione della censura su Facebook e Google è un argomento complesso. Essa è connaturata al sistema. Anche il paese più “libero” ha delle forme di censura contro comportamenti online che sono considerati pericolosi o criminali perché incitano all’odio.
Ogni social network ha pertanto delle regole su quanto è lecito pubblicare e queste politiche sui contenuti possono variare anche di paese a paese. Questo è molto pericoloso poiché possono essere censurati contenuti con la sola colpa di essere in contrasto con il pensiero politico nazionale. È il caso della Cina o della Turchia (con la recente “legge anti-social media”) che esercitano un controllo ferreo sui social, imponendo la censura e limitando di fatto la libertà d’espressione e la possibilità di accedere a informazioni neutrali e indipendenti dall’ideologia governativa.
Da un punto di vista legale non si può imporre di non censurare contenuti. Facebook e Twitter, in quanto imprese private, hanno diritti legali che possono esercitare. E li hanno messi in pratica con il caso Trump, ex-presidente Americano bannato sia su Twitter che su Facebook, i cui contenuti sono stati segnalati per “esaltazione di violenza” e “incitazione all’odio”.
C’è chi ha accolto con favore la scelta, chi invece ha manifestato preoccupazione sull’attitudine dei colossi del web. Una cosa è certa. Questa non è l’immagine dello stesso Internet di qualche anno fa: concepito per la libera circolazione delle informazioni, della conoscenza e di idee, siano esse politiche, economiche o ideologiche.
Quello che un tempo era uno spazio aperto al dialogo, anche tra pensieri divergenti, è diventato ora una replica delle società “tribalizzate” in cui viviamo.
Il meccanismo degli algoritmi social non fa infatti che chiuderci in una bolla. Invece di essere esposti a contenuti diversificati, neutrali e indipendenti, siamo sottoposti in continuazione a quello che vogliamo leggere e, in questo modo, i social non fanno che rafforzare le nostre convinzioni politiche, ideologiche (e complottiste), inasprendo ancora di più le divisioni politiche e sociali.
Chiudiamo questa riflessione con la seguente domanda: fino a che punto è il caso di imporre la censura sui contenuti pubblicati sui social, senza sfociare in una violazione della libertà di espressione?
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